Conclusa la prima tappa per le iscrizioni alle scuole superiori per il 2022-23
Un articolo de Il Sole 24 Ore, del 28 febbraio (pag. 13) a firma di Eugenio Bruno e Claudio Tucci, commenta la prima tappa delle iscrizioni per il prossimo anno scolastico, in scadenza il 14 febbraio. Niente d’improvvisato o solo cronachistico nel testo visto che, da almeno 60 anni, la Confindustria persegue la sua politica reazionaria nei confronti della scuola e delle potenzialità che il sistema scolastico rappresenta per la crescita culturale dei soggetti che lì si formano.
La forma sintetica, ma efficace, del titolo e sottotitolo esprimono una posizione della Confindustria di cui il Sole 24 Ore è l’organo ufficiale.
TROPPE RICHIESTE
Le troppe richieste cui si riferisce l’articolo riguardano il numero delle iscrizioni ai licei, a detrimento delle iscrizioni agli Istituti Tecnici e Professionali. Diamo uno sguardo ai dati:
I due giornalisti per commentare i dati riportati si avvalgono della voce di alcuni dirigenti. La vicepresidente dell’Associazione Nazionale dei Presidi segnala: “ […] l’impossibilità aggravata di accontentare le famiglie […] addirittura fuori della “terzina” di nomi di scuole indicate nell’scrizione on line”. La dirigente del liceo scientifico Isacco Newton di Roma, afferma: “ […] c’è un problema di sovraffollamento importante […] al Newton abbiamo accolto 211 domande formando 8 classi, mentre gli esuberi sono stati 130. Per accoglierli sarebbero servite altre 4 classi”. Al liceo Cavour, sempre di Roma, per mancanza di aule e classi sono state
respinte una cinquantina di richieste, mentre ai licei Cannizzaro e Nomentano i respinti sono stati oltre 100. “[…] l’anno scorso in ogni prima c’erano almeno 3 o 4 studenti che avrebbero dovuto scegliere un altro tipo di scuola”, dichiara un’altra dirigente con l’evidente rammarico rispetto a un presunto cattivo orientamento.
Il confluire delle domande verso i licei non è fenomeno solo romano. A Milano, racconta il preside dell’Istituto Liceo di scienze umane, “[…] ho un centinaio di iscrizioni a entrambi gli indirizzi: Scienze Umane ed Economia Sociale, che non posso accettare. Con i numeri di oggi potrei aprire una ventina di prime classi ma ho la possibilità per non più di 12”. Situazione simile anche a Pesaro dove, al liceo scientifico musicale e sportivo Guglielmo Marconi, “[…] nell’arco di 12 anni siamo passati da 1.000 agli attuali 2.000 ragazzi”. Al liceo scientifico e linguistico Elio Vittorini di Gela dal 2013 le classi sono passate da 39 a 51 e i nuovi iscritti al 2022/23 sono circa 220. “Quest’anno abbiamo utilizzato 7 aule del vicino Istituto alberghiero, che dista 2-3 chilometri” – spiega la dirigente Angela Tuccio – “…Nei mesi scorsi, con le piogge, queste 7 aule sono state rese inagibili e sono finiti in DaD. Se a settembre non potrò contare sulle 7 classi dell’Alberghiero non vedo molte alternative alla prosecuzione delle lezioni on line o attuare i doppi turni […]
I due giornalisti evitano di segnalare le responsabilità delle “contro-riforme” dei vari governi che dal 2000 hanno desertificato il territorio delle istituzioni scolastiche: il PIANO di RAZIONALIZZAZIONE del Ministro Luigi Berlinguer, i PIANI di DIMENSIONAMENTO che hanno ridotto, su tutto il territorio nazionale, il numero delle istituzioni scolastiche di ogni ordine da oltre 16.000 a meno di 8.000. Una “svista” significativa tenuto conto che la Confindustria, utilizzando Il Sole 24 Ore, ha attivamente promosso, non solo appoggiato, ogni fase di questa politica scolastica. Tutti provvedimenti scellerati che sono la causa dell’aumento degli alunni per classi (classi pollaio), del pendolarismo di studenti e docenti precari, del degrado della didattica, della trasformazione delle scuole in aziende verticalizzate dove diventa impossibile l’ascolto degli studenti e la partecipazione democratica.
E pensare che il ministro Bianchi, e prima di lui la ministra Azzolina, ci avevano spiegato che per eliminare le classi pollaio non ci sarebbe stato bisogno di alcuna risorsa perché il calo demografico avrebbe risolto naturalmente ogni cosa. Il messaggio è chiaro: chi denuncia i tagli alla scuola, il proliferare delle classi pollaio, il degrado della didattica semplicemente dovrebbe capire che sono gli studenti a sbagliare, a pretendere ancora un diritto all’istruzione che fatica ad essere percepito come desueto. Orientamento e “riorientamento” servono a far tornare a più miti consigli quanti ancora aspirano a studiare, iscrivendosi a scuole non destinate a loro. E alla stessa funzione elitaria e classista sono preposti i criteri che, in modo abusivo e illegale, in alcune scuole superiori prevedono l’ammissione in base ai voti ottenuti alle scuole medie.
LA CAUSA DI TUTTO: L’OVERBOOKING
Secondo i due commentatori l’overbooking (testualmente: sovrapprenotazione) è la causa di tutte le disfunzioni, e del “[…] paradosso che il lavoro ci sia ma non chi lo possa fare”. Dunque, nel nodo fra eccesso di richieste e mismatching (disallineamento scuola-mercato del lavoro), l’inglesismo, finora in uso in ambito di servizi che non riescono a soddisfare la domanda, svela il pensiero di Confindustria: la scuola fornisce un eccesso di conoscenze che, se si vuole entrare nel mercato, non servono, anzi, lo ostacolano. Sono i saperi di una cultura critica e disinteressata ciò che ostacola un addestramento mirato al lavoro (nelle condizioni disastrose in cui versa oggi) e finiscono per creare false aspettative.
LA LICEALIZZAZIONE DELL’ISTRUZIONE TECNICA E PROFESSIONALE
Già nell’immediato dopoguerra per l’istruzione tecnica e professionale cominciò nel nostro paese un processo lungo e profondo di trasformazione di entrambi gli ordini di studio. Nel tentativo di superare il classismo che faceva da cornice alla distinzione fra ordini di scuola, i programmi poveri ed esclusivamente esecutivi vennero implementati con discipline di taglio umanistico e il numero degli anni dei corsi di diploma aumentato a cinque. Il Ministero della Pubblica Istruzione, allora ancora capace di potere di indirizzo, favorì sperimentazioni e progetti nati dal basso e suffragati da ricche cornici teoriche. Questi cambiamenti ebbero il favore degli studenti e delle famiglie che si accollarono le spese vive derivanti dal mancato ingresso nel mondo del lavoro.
Alla fine del secolo le iscrizioni alle scuole superiori sfioravano il 100% dei giovani in età scolastica. Ancora nell’anno scolastico 2002/2003 il tasso di passaggio dalla scuola media alle scuole superiori era del 99,6% degli studenti, mentre il personale scolastico, negli stessi anni, superava le 1.200.000 unità. Gli istituti tecnici e professionali progettavano indirizzi coerenti con le caratteristiche economiche e produttive dei territori, senza però nulla cedere alle odierne aziendalizzazione e subalternità alle imprese. Un cambiamento culturale e organizzativo frutto di uno straordinario decennio di conflitti e di lotte operaie e civili, nel nodo fra conquiste di diritti per il lavoro e diritto all’educazione, istruzione, formazione (scuola dell’obbligo unica, ingresso all’università per tutti, 150 ore per i lavoratori, ecc).
La Confindustria, conscia del carattere profondamente innovatore di tali conquiste, si è opposta fermamente a quella che definisce negativa licealizzazione dei percorsi educativi e scolastici, rivendicando la formazione professionalizzante nell’accezione più misera, per “allievi” (non studenti!) destinati a lavori meramente esecutivi.
LA FORMAZIONE PROFESSIONALE IL RISCHIO DI UN NUOVO GHETTO
La formazione professionale, cenerentola dei percorsi formativi in Italia, è il segmento nel quale si sono realizzate le più numerose e radicali manipolazioni normative negli ultimi anni. Trasformazioni che meritano un’attenzione particolare perché avvenute – complice il Parlamento e molti governi regionali – nella più completa disinformazione, trattando il tema come un campo di esclusivo interesse delle imprese e della Confindustria.
EPPURE NON MANCAVANO GLI AVVERTIMENTI
Ci limitiamo a citare quelli dell’ISFOL (Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori, Ente di ricerca pubblico) che, nel rapporto del 2006, aveva ripetutamente lanciato l’allarme denunciando il rischio che una formazione servile nei confronti delle imprese desse luogo ad una formazione: “[…]vulnerabile ai fini dell’inclusione sociale e lavorativa, in quanto esposta a rapida obsolescenza sul fronte della spendibilità”. Il mero addestramento aziendale avrebbe mutilato i giovani delle capacità di accesso alle trasformazioni indotte dalle nuove tecnologie, facendo mancare loro le capacità, in termini di conoscenza critica, per comprendere rischi e vantaggi del nuovo modello produttivo. Infatti, l’ISFOL sottolineava il carattere fortemente locale dei “percorsi formativi” da cui derivava un addestramento aziendale segnato dalla “segmentazione [atta a] rispondere alle esigenze di contesti sociali e produttivi locali“, senza il corredo di una formazione culturale di base indispensabile alla lettura del tessuto territoriale. La Formazione Professionale, con i suoi programmi minimi, dispersi in miriadi di agenzie e di percorsi, con il suo carattere addestrativo, ha avuto prevalentemente la funzione di far risparmiare alle imprese le spese per l’addestramento aziendale!
IL BUON SENSO NON BASTA PIÙ
Il “buon senso” invocato dall’ISFOL non regge più al confronto con la complessità raggiunta dalla società nel suo insieme e dallo sconvolgimento che ha colpito il mondo del lavoro.
La formazione professionale non risponde al dettato costituzionale che all’articolo 3 recita:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
Mentre si sconta il mancato obbligo scolastico fino a 18 anni, vige una sorta di evasione dall’attuale obbligo a 16 anni suffragata dai contratti di tirocinio per i quindicenni (Dlgs 81/2015) , dispositivo non a caso accompagnato dall’introduzione dell’Alternanza Scuola Lavoro (L. 107/2015) e da tutte le altre forme di lavoro flessibile e gratuito derivanti dal Jobs Act, nel percorso legislativo che va dal 2014 al 2016.
GIOVANI E FAMIGLIE NON HANNO ABBOCCATO
I giovani e le famiglie che Confindustria cerca di demonizzare per le scelte che alzano la domanda di studio (e producono overbooking!) non hanno ceduto alle lusinghe di una occupabilità tanto reclamizzata e tanto esosa per le casse della finanza pubblica, hanno forse capito che è una grandiosa bufala. Se può accadere che si trovi lavoro subito dopo il diploma dell’ITS, sarà un lavoro intrinsecamente segnato dalla precarietà, sia contrattuale che di competenze lavorative.
La scuola, in buona sintesi, deve restare estranea alle logiche del mercato del lavoro, il suo compito è formare cittadini in grado di capire, di scegliere, e di contribuire a modificare profondamente la società in cui vivono e in cui sono chiamati a dare il loro contributo.
COLLETTIVO NiNaNd@
No INVALSI, No Alternanza Scuola Lavoro, No Didattica a Distanza
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